Una crisi, questa portata dall’emergenza coronavirus, che ha colpito il settore Horeca più di altri, che obbliga i cuochi a dover essere realisti, tra preoccupazioni, paure e rassegnazioni. Ma questi, forti del loro innato ottimismo, non smettono di sperare e di ricercare soluzioni ottimali per il post-emergenza. Tra questi c’è anche Giovanni Porretto, chef siciliano e delegato per la sua regione dell’associazione di cuochi Euro-Toques, che illustra attraverso Italia a Tavola la via che la cucina made in Italy deve percorrere per uscire da questa crisi.
Il nostro mondo sembra essersi fermato da due mesi o poco più: due mesi paradossali, illogici, che – trascorsi – hanno ferito specialmente la ristorazione. Senza che ancora si palesi la luce in fondo al tunnel. Dopo una prima fase di grande solidarietà la crisi economica del settore Horeca appare come una crisi senza precedenti.
A prescindere dal lavoro già perso nei mesi scorsi, si ha quasi la certezza che ciò che il futuro ci riserva non abbia alcun profumo di buono, né ci conceda rosee speranze di ripresa.
Certo, mi direte, è una prospettiva negativa… Può essere, ma chi mi conosce sa che sono in realtà un inguaribile ottimista da sempre… È solo che stavolta non vedo nulla di promettente, provando a mettere in campo piccole strategie, come sono abituato a fare.
Si è sentito di tutto negli ultimi tempi, hanno dato opinioni anche non chi non è esperto, i “non addetti al settore”: in molti si sono improvvisati tecnici e detentori di un sapere che in realtà non possiedono. Tra questi non è mancato chi ha azzardato previsioni che non descrivono la verità, che anzi si presentano come a dir poco ridicole.
La fobia sociale, il distanziamento tra clienti, turisti, operatori e un numero contingentato di fruitori costringeranno un settore – che della socialità e del convivio ha fatto la propria filosofia – a vivere un deficit grave.
Tutto questo è collegato alle restrizioni attuate anche ad altri settori, che finiranno con l’aggravare la situazione del turismo in generale; se riflettiamo ad esempio sul trasporto aereo, vedremo il numero dei posti a bordo ridimensionato, con un conseguente calo di turisti, che non sarà sufficiente a coprire le aspettative di ricavi di migliaia di attività.
Il turista di ritorno – quello dei correggionali migrati all’estero o al nord – che solitamente torna a casa nei periodi di ferie, a trascorrere le vacanze nel proprio paesino d’origine, non ci sarà, perché ha già preso o perso le ferie, come altresì sarà per i lavoratori regionali stessi, cosicché anche quel fantomatico turismo locale finirà per perdere di consistenza.
Forse qualcuno si potrà concedere un weekend, ma non in tanti, perché in ogni caso bisognerà recuperare questi giorni di chiusura oramai andati, persi per pagare tributi e gabelle che non accennano a diminuire.
Parliamo tanto di economia di scala, ma su cosa voglia davvero dire non ci si riflette davvero… Non sono un esperto, ma credo che se abbiamo minor possibilità di raggiungere il “punto di pareggio” della nostra attività, allora sarebbe opportuno ridimensionare e contenere anche i costi di affitti, energie e tasse, sul suolo pubblico, sulla spazzatura e quant’altro. Realtà oggettive che ci diciamo tutti dalla prima ora.
Però una lucina, un barlume di speranza ancora non si sono mai spenti, ed ecco venir fuori il mio lato ottimista, speranzoso e sognatore. Perché in fondo noi siamo cuochi, chef di cucina, persone che nelle loro variegate esperienze in giro per l’Italia e il mondo hanno raccolto conoscenze di ogni tipo. Facciamo ristorazione perché è quello che ci appaga, che ci realizza di più. Una ristorazione che ha molte sfaccettature – ho sempre considerato la cucina come la musica e lo chef come un direttore d’orchestra… “Così come con sette note si possono creare sempre nuovi capolavori, allo stesso modo in cucina si possono creare migliaia di ricette sempre nuove e di conseguenza molte forme di ristorazione alternativa”.
Al momento, purtroppo, non è tempo per noi. Non c’è reale spazio nemmeno per una ristorazione alternativa, come la si intende oggi, a causa della difficoltà di adeguarsi alle nuove esigenze sanitarie (distanziamento tra operatori). Stile e tipologia delle nostre preparazioni faticosamente si possono declinare in una cucina da delivery, perché la loro miglior espressione sta in una preparazione last minute.
Per cucina alternativa intendo quel modo di fare ristorazione tipicamente italiano, quasi da osteria a gestione familiare, dove il protagonista è un cibo senza troppi fronzoli, il giusto dico io, creato da materie prime strettamente locali, che a mio avviso hanno fatto delle cucine regionali un patrimonio dell’umanità. Insisto su questo, senza nulla togliere però a cibi per così dire esotici o semplicemente provenienti da altri Paesi, che hanno dato la possibilità di creare cucine fusion più adatte ai tempi della globalizzazione. Penso sia conveniente valorizzare di più quello che abbiamo, invece di lasciare le nostre primizie appese all’albero o al macero… Sarebbe così una bella rinascita per l’Italia.
In questi ultimi anni ci siamo resi conto che non conosciamo più i nostri patrimoni storici e paesaggistici, le bellezze del nostro turismo interno sono pressoché sconosciute agli italiani stessi, ai giovani ancor di più.
E così, allo stesso modo, in cucina siamo diventati giapponesi, indiani e tutto quello che la moda ha richiesto che fossimo, un numero corposo di cuochi italiani che sono italiani perché in Italia ci sono nati, ma che esprimono una nuova italianità nei piatti che in realtà non esiste.
Allora riscopriamoci e rivalorizziamoci attraverso l’acquisizione delle nostre eccellenze d’arte e cultura anche in cucina, eccellenze che sempre sono e saranno espressione d’identità di un territorio e di un popolo: il Nostro.
Viva l’Italia tutta.